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Il ddl Giannini 2994, meglio noto col nome di “Buona Scuola”, è da tempo oggetto di dibattito politico e mediatico dentro e fuori dall’Aula di Montecitorio. Dedico queste brevi considerazioni non tanto agli aspetti che hanno scatenato reazioni accese nelle parti sociali – e ai loro risvolti politici nelle dinamiche di partito – quanto alle modifiche apportate dalla Commissione Cultura al testo originale che toccano più da vicino lo spirito della riforma in materia di rapporti tra scuole e territori di appartenenza. Con questo mi riferisco all’impatto della riforma sui rapporti tra dirigenti scolastici/istituzioni scolastiche e contesti territoriali/enti locali.

Mi sia consentita solo una breve valutazione sull’aspetto generale del ddl prima e dopo il passaggio in Commissione, poiché riguarda da vicino il nostro tema; mi sento di affermare che le modifiche della Commissione Cultura della Camera hanno nettamente ridimensionato il già timido afflato autonomista e le ipotesi di decentramento contenute nel disegno originale, non solo a causa della costante preoccupazione dimostrata da più parti nei confronti della figura del “Preside manager” (espressione piuttosto cacofonica ma efficace) e delle sue prerogative esplicitate nel famigerato Art. 9, ma soprattutto a causa dello stralcio di una parte consistente dell’articolo 23 ex 21 del Capo VII “Riordino, adeguamento e semplificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione”. Completamente soppressa, in particolare, l’eloquente lettera b del secondo comma ai punti 1, 2, 3, 4 che recitava, tra l’altro, “rafforzamento dell’autonomia e ampliamento delle competenze gestionali, organizzative e amministrative delle istituzioni scolastiche”, “valorizzazione del ruolo dell’istituzione scolastica, anche nel contesto territoriale”, “responsabilizzazione del dirigente scolastico nella scelta e nella valorizzazione del merito del personale”, “incremento dell’autonomia contabile delle istituzioni scolastiche ed educative statali e la semplificazione degli adempimenti amministrativi e contabili”. Soppressa anche la lettera f nel medesimo articolo, Adeguamento, semplificazione e riordino delle norme concernenti il governo della scuola e degli organi collegiali, con i relativi punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 (tra cui vale la pena ricordare il numero 1 sull’adozione, in ogni istituzione scolastica statale, di un proprio statuto, il numero 3, riguardante “specifiche forme di regolazione riferite alla disciplina di dettaglio della propria organizzazione interna”, e il numero 6, riguardante “la valorizzazione dell’autonomia scolastica anche attraverso la definizione e la costituzione di reti di scuole per l’ottimale utilizzo delle risorse umane e strumentali e l’attribuzione alle reti stesse di capacità di rappresentanza”).

Occorre necessariamente fare chiarezza su ciò che si intende qui per “rapporti” tra scuole e territorio, evidenziando soprattutto la differenza tra scuole di diverso ordine e grado in relazione ai loro legami con le istituzioni territoriali da cui dipendono i finanziamenti a loro indirizzati in materia di diritto allo studio (con tutto ciò che ne consegue, tra cui finanziamento dell’offerta formativa, sostenibilità sociale in termini di assistenti ad personam, trasporto scolastico, attività extra scolastiche etc). Mentre il rapporto rimane stretto e indissolubile tra le scuole dell’infanzia, le scuole primarie, le scuole secondarie di primo grado e gli enti locali, i Comuni, le cose cambiano sensibilmente per le scuole secondarie di secondo grado, gli istituti tecnici superiori e, ovviamente, l’Università (i cui finanziamenti dipendono, come noto, dalle Regioni per quanto concerne il diritto allo studio, le borse di studio, le residenze universitarie, e dallo Stato). Sovente il ddl fa riferimento ai legami tra la scuola e il territorio, con un occhio di riguardo al tessuto produttivo in cui le istituzioni scolastiche – c’è da immaginare, soprattutto le scuole superiori quali istituti tecnici e istituti professionali – sono inserite, senza esplicitare a sufficienza in che modo la collaborazione tra scuola, impresa e territorio in generale possa esplicarsi al meglio.

Osserviamo da vicino alcuni punti salienti della riforma citando direttamente dal testo, che si presenta a volte disomogeneo anche all’interno del medesimo articolo e della medesima lettera, come nel caso delle lettere h e l del comma 3 dell’Art. 2 Capo II (Autonomia scolastica e valorizzazione dell’offerta formativa): mentre la Commissione ha deciso di eliminare, nella lettera h, il riferimento alla “produzione e ai legami con il mondo del lavoro”, nella lettera l permane il riferimento al tessuto produttivo del territorio, con le parole “valorizzazione della scuola intesa come comunità attiva, aperta al territorio e in grado di sviluppare e aumentare l’interazione con le famiglie e con la comunità locale, comprese le organizzazioni del terzo settore e le imprese”. È certamente lodevole che nei principi fondativi di una riforma, in un articolo che si riferisce alla stessa autonomia scolastica, vi siano richiami al territorio in cui una scuola è inserita, vive e opera, ma non si comprende il senso di eliminare il riferimento alle realtà produttive, quando sussiste il riferimento generale a una comunità locale. La sensazione è che la Commissione sia sempre e comunque restia, in materia di riforme scolastiche, a fare concessioni troppo lasche all’autonomia e in particolare a iniziative volte a rafforzare il legame tra scuola e impresa, ponendo un freno a una fattiva collaborazione che qualifica una scuola e un territorio in quanto quella scuola in quel territorio.

Alla letter r del medesimo comma 3 dell’Articolo 2 Capo II troviamo il riferimento ai ben noti (“ben noti” quantomeno agli amministratori locali che si occupano di servizi sociali e istruzione) corsi di alfabetizzazione per studenti provenienti da paesi extra comunitari, o esteri in genere, che praticano l’italiano come seconda lingua e che necessitano di un rafforzamento delle conoscenze linguistiche in vista dell’inserimento attivo nel percorso scolastico. La lettera r del comma (il cui scopo è indicare esempi e strumenti di attuazione di una maggiore e migliore “autonomia” scolastica) fa riferimento a “corsi e laboratori per studenti di cittadinanza o di lingua non italiana, da organizzare anche in collaborazione con gli enti locali, il terzo settore e il volontariato”. Ancora – in relazione al piano triennale dell’offerta formativa che ogni istituzione è tenuta a redigere con possibilità di integrazioni e modifiche – si fa esplicito riferimento (nel comma 5) alla possibilità, per il dirigente scolastico, di promuovere i rapporti con gli enti locali e le istituzioni locali ai fini di migliorare il P.O.F., con particolare riguardo a tutte le realtà sociali, culturali ed economiche del tessuto in cui la scuola è inserita. Come ogni amministratore sa, il tema del finanziamento all’offerta formativa dipende più dalla mera  disponibilità in bilancio e dagli equilibri della spesa corrente che dalla lungimiranza della collaborazione tra scuola, Comune e realtà esterne (siano esse terzo settore, volontariato o impresa produttiva), soprattutto nei Comuni virtuosi di media grandezza che ancora oggi si vedono imbrigliati da regole di finanza pubblica che non permettono un’adeguata spesa per i capitoli di bilancio dedicati a scuola, manutenzione, verde pubblico. È certamente necessario sottolineare – a maggior ragione in una riforma che ambisce a definirsi innovativa – l’importanza della sussidiarietà orizzontale in materia di istruzione, ma rimane la sensazione che tutto ciò sia affidato più alla libera iniziativa delle comunità locali che alla scuole e ai suoi organi collegiali.

Anche l’Art. 4 del Capo II offre interessanti spunti di riflessione sul tema, essendo dedicato all’alternanza scuola-lavoro nel percorso formativo degli studenti delle scuole superiori compresi i licei. Il primo comma dell’articolo stabilisce il monte ore che gli studenti sono tenuti a dedicare a stage alternativi all’attività in classe ai fini di un migliore orientamento al mondo del lavoro, e vi ritroviamo un esplicito riferimento a imprese ma anche a istituzioni culturali e di volontariato (rivolte, queste ultime, in particolare ai liceali). È evidente che ai fini di una saggia organizzazione dell’alternanza scuola-lavoro sia necessaria una stretta collaborazione tra scuole, enti locali, città metropolitane e stakeholders di un determinato territorio, anche se il ddl lascia – come facilmente prevedibile – aperta ogni possibilità (e ogni rischio) che questa collaborazione sia declinata meglio o peggio a seconda delle realtà territoriali del Paese, limitandosi a stabilire che “il dirigente scolastico individua all’interno del registro di cui al comma 8 le imprese e gli enti pubblici o privati disponibili all’attivazione dei percorsi di cui al presente articolo e stipula apposite convenzioni” (comma 7) e che “A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola lavoro” (comma 8).

Merita di certo una menzione l’Articolo 13 del capo III del ddl (Valorizzazione del merito del personale docente) per l’ambiguità con cui si segnala la necessità che il premio al merito degli insegnanti nella misura di un fondo incentivante (per cui sono stanziati complessivi 200 milioni di euro annui a partire dal 2016) venga assegnato “considerando altresì i fattori di complessità delle istituzioni scolastiche e delle aree soggette a maggiore rischio educativo”. Verrebbe da chiedersi quali sono e perché le aree soggette a rischio educativo e se coincidono o meno con le aree che presentano “fattori di complessità”; tutto ciò è strettamente legato al tessuto sociale e urbano in cui le scuole operano e all’irriducibile differenza dei territori nell’intero sistema Paese. È più “complessa” una realtà che patisce dispersione scolastica, come sovente nel Mezzogiorno, o una realtà che affronta flussi migratori più consistenti, come accade in Lombardia, in Veneto, in Emilia?

Chiudo con un riferimento all’Art. 20 del Capo VI, Scuole innovative. Questo articolo – di grande interesse ma anche di complessa attuazione – prevede che entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge il Ministero dell’Istruzione provveda a pubblicare un avviso pubblico rivolto non solo a scuole quanto a professionisti, imprese ed enti locali, ai fini di raccogliere domande e manifestazioni di interesse per la costruzione di scuole altamente innovative dal punto di vista tecnologico, nella misura di almeno una in ogni Regione. È evidente che le proposte che giungeranno al Ministero saranno difformi ed eterogenee a seconda dei territori di provenienza, ed è altrettanto evidente la necessità che siano enti locali e Regioni, di concerto con le realtà produttive più brillanti e consolidate del territorio, a doversi esporre più di tutti perché le scuole innovative sorgano entro i loro confini, in un disegno di sviluppo organico e sapiente. C’è da augurarsi che già da ora i Comuni più intraprendenti si mettano all’opera per elaborare proposte innovative, proprio come le scuole che dovranno ospitare.