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Il rapporto politica-cittadini si sviluppa essenzialmente in due direzioni, opposte e complementari: da un lato la direzione che va dalla politica verso i cittadini – nel caso specifico parliamo degli strumenti del web 2.0 che la politica utilizza nel rapporto comunicativo/informativo con l’elettore – dall’altro lato invece quella che va dai cittadini verso la politica, ovvero le pratiche di democrazia diretta.

La seconda questione – ben più complessa, visto che in quanto sarebbe necessario preliminarmente interrogarsi sullo stesso “se” e “come” possa esistere autonomamente rispetto a una sua proposizione verticale d tipo top-bottom – non è oggetto di questa trattazione.

Ci concentreremo sulla prima, che è la dimensione che ritroviamo effettivamente esplicitatasi in concreto: in realtà, tuttavia, la comunicazione politica non sfrutta ancora appieno – e se questo sia un bene o un male è ciò che andremo ora a considerare – le potenzialità offerte dal web 2.0 e in particolare dalla personalizzazione attraverso la profilazione degli utenti[1]: rispetto al marketing commerciale, la comunicazione politica è probabilmente in ritardo  di almeno 5 anni.

Il nostro traffico web è un insieme di dati che parla di noi. Molti dati siamo noi stessi a immetterli per poter usufruire di servizi che ci vengono offerti in modo gratuito: l’esempio classico è proprio Facebook, dove ogni nostra preferenza, ogni nostro “like”, il modo stesso in cui parliamo e gli argomenti di cui parliamo, vengono analizzati e trasformati in una nostra “identità virtuale”; è evidente che proprio questi dati sono il modo in cui l’utente accetta di “pagare” il servizio di cui usufruisce. Altri dati vengono reperiti attraverso gli acquisti che facciamo online, attraverso i cookie dei siti web che visitiamo, oppure con metodi illeciti, come il phishing o lo scamming, per esempio.

Questi dati diventano una merce per società che rivendono la nostra “identità virtuale” – un dato sulla cui veridicità non abbiamo nessuna possibilità di controllo e verifica – per permettere la creazione di quel “mondo asetticamente amico” che è il web personalizzato, un mondo di cui i social network sono la punta dell’iceberg, ma che passa attraverso, per esempio, tutti gli acquisti che ci vengono consigliati dai siti di e-commerce che utilizziamo abitualmente: se ti piace questo oggetto, probabilmente vorrai comprare anche quest’altro, perché lo hanno fatto i tuoi amici, perché lo hanno fatto le persone che hanno compiuto il tuo stesso acquisto.

Tuttavia i rischi del web personalizzato si acuiscono incredibilmente quando si tratta di dinamiche politiche, per una serie di motivi che si potrebbero così riassumere:

  1. perdita del contesto, dovuta al fatto che la rilevanza è un concetto completamente soggettivo: è noto l’esempio fatto da Mark Zuckerberg in merito alla morte di uno scoiattolo davanti a casa, che può essere ritenuta più “rilevante” per noi e per i nostri interessi immediati rispetto a quella di una persona in Africa;
  2. assenza di opinioni differenti dalle nostre o di argomenti non rilevanti – tra cui, per molti, rientra anche la politica –, in quanto i filtri ci propongono prevalentemente ciò che ci piace, ovvero punti di vista simili a noi: questo genera, peraltro, un vero e proprio circolo vizioso, visto che i “click” sono considerati una sorta di “voto” sulla rilevanza di un certo contenuto filtrato per noi – si tratta del concetto di “click signal”, utilizzato anche da PageRank, il principale algoritmo con cui Google ci mostra in modo personalizzato i risultati delle ricerche che effettuiamo –; in conclusione, insomma, i filtri bloccano ciò che è complesso, spiacevole, di evoluzione non rapida e che non ci riguarda direttamente;
  3. il processo di “disintermediazione” della politica è tale, probabilmente, solo ad un’analisi superficiale: la maggiore velocità del dibattito pubblico, che consegue all’utilizzo diretto dei social da parte dei politici o delle formazioni politiche, crea una mole di dati più confusa e molto più complessa da analizzare per il cittadino-elettore; in realtà, probabilmente, stiamo solo assistendo a uno slittamento degli intermediari: alla perdita di efficacia di quelli tradizionali – come giornali, televisione, agenzie stampa, tutti uniti dalla gestione umana delle scelte – si affianca una complementare crescita di quei nuovi intermediari che sono i servizi web; una funzione che viene assolta dagli algoritmi di siti come Google, Facebook e Twitter, per esempio, rendendo superfluo l’intervento umano.

L’aspetto più inquietante, tuttavia, risiede proprio nella possibilità di applicare al corpo elettorale strategie di marketing segmentato, come viene abitualmente fatto nel mondo commerciale: le società che possiedono un quantitativo sempre maggiore di dati su di noi e sui nostri interessi potrebbero permettere a politici spregiudicati di compiere campagne elettorali “mirate” a quegli elettori che è più semplice convincere, utilizzando gli argomenti per loro più interessanti, condivisibili e convincenti. Tale “frammentazione” può andare anche a discapito della sincerità e rende più difficile, successivamente, governare, visto che i contenuti comuni ai vari gruppi-target di una campagna elettorale diventano sempre meno.

Vi è un’ulteriore riflessione in merito alla non reciprocità del mondo del web personalizzato: un mondo che si fonda sulla trasparenza degli utenti e sulla non-trasparenza degli algoritmi e dei codici che lo controllano. Ma se questo mondo personalizzato ha per proprio obiettivo dichiarato quello di influenzare le decisioni con un’efficacia mai vista prima, e se i processi decisionali sono al centro dell’azione politica – facciamo decisioni su quali azioni politiche intraprendere; o almeno su quale programma scegliere e chi votare per attuarlo –, significa che ci sono macchine, codici e algoritmi che influenzano la nostra espressione di voto (o che quantomeno sono potenzialmente in grado di farlo, allo stesso modo in cui influenzano cosa acquistiamo); ne consegue che il voto diviene un bene quantitativamente monetizzabile con una certa precisione: ha il costo che il politico spende per acquistare le informazioni sull’“identità virtuale”, informazioni che possano condizionare attraverso indicazioni personalizzate che agiscano su interessi e convinzioni. Una pratica fortunatamente ancora non attuata solo perché la politica, come si ricordava prima, è in ritardo rispetto al mondo dell’economia nell’utilizzo di questi strumenti.

Se è vero che il problema dei filtri è la loro non-trasparenza – o meglio il fatto che siamo inconsapevoli della loro presenza/assenza, del modo in cui operano e soprattutto dell’immagine di noi che si sono formati e che usano per agire – è anche vero che la loro forza risiede proprio in questo: un circolo vizioso che sembra non lasciare molti margini di manovra per uscirne, se si escludono illusorie considerazioni sulle intelligenti e lungimiranti scelte che potremmo fare ognuno di noi potrebbe fare in un orizzonte di libero arbitrio sempre più utopistico.


[1] L’argomento è molto ben approfondito da E. Pariser, The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, Penguin Press, New York: 2011