cervelli_fugaPartirò dalla domanda che molti giovani si pongono: “Dove sarò tra 5 anni?”

A questa domanda molti rispondono non in Italia per tanti motivi: perché l’Italia è solo un paese per vecchi”, “perché qui non viene riconosciuto il mio talento”, “perché non abbiamo una classe politica che pensi ai giovani”, “perché sono destinato a guadagnare meno dei miei genitori”, “perché non vedo sbocchi ne possibilità di crescita”.

Il prodotto di questo “sentire comune” è un flusso di oltre 60 mila i giovani italiani che lasciano il Paese ogni anno, dei quali il 70% sono laureati: un trend che ha visto un aumento negli ultimi anni del 40%, rivolto principalmente verso destinazioni come Germania, Gran Bretagna, Svizzera, Francia, Cina e Stati Uniti.

Certo, le migrazioni fra fine ‘800 e il secondo dopoguerra erano state più intense nei numeri, ma infinitamente di meno per il capitale versato nelle persone che poi se ne andavano. Molti di quei migranti erano analfabeti, non troppi avevano finito le elementari, mentre oggi si parla di individui con alte qualifiche professionali ed elevati livelli di istruzione: se ieri a emigrare erano tante persone di tutte le età che scappavano dalla miseria di un paese scarsamente industrializzato, analfabetizzato e ancora sostanzialmente povero, al contrario oggi si tratta di giovani altamente scolarizzati che si formano in Italia e acquisiscono competenze e conoscenze cui il nostro mercato del lavoro non dà alcuna possibilità di espressione.

Cittadini italiani su cui il nostro paese ha investito per ognuno almeno 163 mila euro per il loro percorso formativo, dall’età di 3 anni fino alla laurea. Emigranti che portano con se un capitale umano costato 23 miliardi che l’Italia ha regala all’estero: sono 23 miliardi dei contribuenti regalati allo sviluppo di altre economie. È una cifra pari al doppio di quanto occorre per stendere la rete Internet ad alta velocità che in questo Paese continua a mancare. È una somma pari a un terzo del costo dell’intera rete ferroviaria ad alta velocità italiana, che al chilometro è la più cara al mondo. Così l’Italia manda via qualcosa di “immateriale” ma che costa e vale più delle sue autostrade o ferrovie.

L’espatrio dei nostri connazionali in sé potrebbe anche non essere un fenomeno negativo, purché il saldo tra gli studiosi che lasciano il paese e quelli che vi fanno ritorno non sia in difetto, perché potrebbero riportare in Italia le competenze acquisite all’estero. In Italia purtroppo non siamo né in presenza di uno scambio di cervelli (brain exchange) né tantomeno di una circolazione di cervelli (brain circulation): il fenomeno che invece si manifesta sistematicamente nel nostro paese è una vera e propria fuga, le cui proporzioni si stanno aggravando anno dopo anno fino a divenire una vera perdita di un’intera generazione di giovani ricercatori, studiosi, imprenditori, professionisti.

L’analisi dimostra che l’attuale flusso migratorio non è né un fenomeno di costume né tantomeno l’espressione della curiosità dei giovani di scoprire nuovi orizzonti ma una scelta quasi obbligata per coloro che aspirano a una vita migliore, ricca di meritate soddisfazioni dopo anni di studio.

Perché espatrino è chiaro: lo stipendio medio, all’estero, è quasi il doppio di quello che potrebbero avere in Italia, soprattutto per le figure specialistiche e apicali. Ma non è solamente una questione di soldi: spesso all’estero la carriera è assicurata, i giovani ottengono credito e responsabilità, mentre in Italia la valorizzazione dei talenti è ancora un’utopia in molti settori.

Quali sono le possibili soluzioni per arginare questa apparentemente inarrestabile emorragia?

Una svolta radicale, una strategia vincente che esuli dalla sterile offerta di sconti fiscali, che non ha portato al rientro sperato dei ricercatori. Bisogna offrire ai nostri cervelli in fuga una ragione per cui tornare: possibilità di carriera, credibilità e ascolto delle loro idee, consentendo loro di produrre lo sviluppo del nostro paese.

Condizione necessaria ma non sufficiente per evitare lo spopolamento e impoverimento del nostro paese potrebbe essere l’attuazione di una serie di provvedimenti per favorire lo sviluppo e garantire una migliore qualità di vita per tutti. Nelle città del domani si dovrebbe partire da un cambio di mentalità: dove il merito premi più del servilismo, sia nelle università che nel mondo del lavoro, dove le migliori menti del nostro paese abbiano tutti gli strumenti necessari per svolgere al meglio il loro lavoro. Cercare di arginare lo shopping che le multinazionali di altri paesi vengono a fare nelle nostre università. Migliorare l’attrattività del nostro paese, sia nelle aziende che nelle università, provando a mitigare la fuga dei cervelli diventando attrattivi per i ricercatori stranieri. Incrementare anche la nostra capacità di intercettare fondi e finanzianti per la ricerca da bandi europei, che sistematicamente perdiamo a favore di paesi più organizzati o strutturati di noi. Incrementare la percentuale del PIL destinata alla ricerca creando maggiore occupabilità per i giovani laureati, dato che lo sviluppo di un paese passa inevitabilmente dall’innovazione e dalla ricerca. Provare a tornare ad essere un paese dove si scegliere di lavorare, di vivere e fare ricerca perché si ha un valore aggiunto rispetto agli altri paesi, non solo per il nostro bellissimo paesaggio e per la nostra cucina ma perché le nostre università e le nostre aziende riescono ad avere una visione del futuro migliore di quelle degli altri paesi. Sarà quindi necessario per garantire un futuro ai nostri giovani e al nostro paese riuscire a creare una rete globale di società e università pronte ad assumerli.