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Un tempo era la “gente perbene”, la gentry con termine anglossassone certamente più cool, che dalle campagne e dalle periferie si spostava progressivamente sempre più verso i centri urbani, recuperando immobili e interi quartieri. I prezzi salivano, la qualità di vita aumentava e chi non si poteva più permettere il nuovo benessere progressivamente sciamava verso “nuove periferie”.

La grande città abitata da gente benestante, animata da una vita notturna densa e peccaminosa che ha animato romanzi, filmografia e la fantasia di tutti noi, sta lasciando il posto a qualcosa di profondamente diverso, sempre meno caratterizzato da un’identità locale e territoriale.

Sono le masse dei grandi capitali internazionali che si spostano nel mondo alla ricerca di “nuovo prestigio” da realizzare. Sembra quasi essersi invertita la tendenza storica: non è più il luogo che da prestigio all’investimento, ma al contrario l’investimento che arricchisce il luogo. E ciò può accadere solo quando le masse monetarie che si muovono sono davvero considerevoli.

Palazzi interi, nuove costruzioni o addirittura quartieri sorti da nulla, abitati per non più di poche settimane all’anno. Centri direzionali di servizio che prendono il posto del vecchio mix funzionale che caratterizzava le città. In questo modo le città entrano in una competizione globale, ma è questione di brand, è marketing più che scelta urbana e di vita.

Il fenomeno non è nuovo in realtà: i grandissimi capitali si sono sempre spostati nel mondo in funzione delle esigenze dettate dagli scenari politici mondiali. Basti pensare ai primi capitali europei negli Stati Uniti, alla ricchezza Argentina del secondo dopo guerra o più recentemente ai patrimoni arabi e russi che cercano collocazioni sicure e visibili per dire al mondo – che conta – “ci siamo anche noi”.

Grandi masse di capitali significano cambiamenti massicci e repentini. Per rimanere nel vecchio continente l’esempio più calzante rimane Londra: qualcuno oggi la definisce con formula colorita metropoli “omogeneamente opulenta, sterilizzata e insipida”. Di certo c’è sicuramente l’omogeneizzazione in nome di una coolness globale.

E proprio qui sta il cuore del nuovo fenomeno. Leggendolo con la lente del marketing potremmo dire che dall’iper-segmentazione le mega-città metropolitane globali sono tornate ad un’identità unica, un po’ uguale in ogni luogo, che si rivolge ad un target unico a livello mondiale, rigidamente segmentato sempre più sul “censo” che non sui gusti e le mode.

L’Italia sembra ancora molto indietro in questo senso. Siamo certamente un florido mercato per il personal-shopper dei supermiliardari di mezzo mondo, ma non c’è quella velocità di flusso che caratterizza le metropoli globali, anche in paesi emergenti come l’Indonesia o il Sudafrica.

Questa “lentezza”, la slow-life tipicamente italiana, questa volta potrebbe non rivelarsi un male, bensì un’opportunità. C’è il tempo per ragionare sugli eventi, il tempo necessario affinché le Amministrazioni cittadine si dotino degli strumenti per capire e guidare dove possibile i processi.

L’urbanizzazione diffusa, che non mi sembra abbia eguali nei paesi più sviluppati perlomeno, può rappresentare poi un laboratorio estremamente interessante per immaginare nuove relazioni sociali e produttive. La diffusione urbana da problema potrebbe essere letta come opportunità alla luce di questi cambiamenti globali.

Certo, servono risorse, fino ad oggi latenti, e serve dotare gli attori urbani, Amministratori e cittadini, degli strumenti per comprendere. Sono in atto cambiamenti sociali enormi che stanno ridisegnando la compagine sociale urbana che oggi conosciamo. In Italia, a differenza di altri, abbiamo milioni di “vuoti urbani” da ridisegnare.