il Paese dei campaniliAnche io mi sento di condividere l’appello di Vittorio Feltri: ABOLIAMO LE REGIONI! Presi dalla smania di tagli e tasse, abbiamo perso di vista il punto focale della questione: razionalizzare la macchina amministrativa, sia nelle funzioni che nelle spese, al fine di avere un territorio funzionale e funzionante per i cittadini.

Non vorrei scendere nell’analisi storica della questione perché preferirei tracciare il sentiero che porta, senza paura, verso il futuro: però occorre fare delle precisazioni. Con la Riforma del Titolo V, il Legislatore ha inteso creare 21 Mini-Stati-nello-Stato, attraverso un riparto di competenze che, sulla carta, ritengo essere comunque geniale, a prescindere dai risultati concretamente ottenuti: lasciare a livello centrale i compiti necessariamente attribuibili allo Stato e demandare, all’Ente di prossimità, tutti gli altri, pur secondo i principi di differenziazione ed adeguatezza; per altre materie, invece, lo Stato fissa solo la cornice e le Regioni il dettaglio. A mio avviso, penso si tratti di una delle più grandi innovazioni nell’assetto istituzionale italiano assieme all’elezione diretta dei Sindaci. Peccato, però, che questa “devoluzione” di competenze sia avvenuta in maniera incompleta e spesso inefficace e per materie alquanto discutibili come, per esempio, il turismo.

Non bisogna inoltre dimenticare che le Regioni sono un’invenzione degli anni Settanta e che, storicamente, non appartengono alla cultura italiana. Il Paese dei campanili già conosceva, infatti, distretti di area vasta: si pensi che l’origine delle Province risale alle circoscrizioni sabaude per il reclutamento militare – “vecchie”, quindi, come l’unità d’Italia – e, a voler fare i preziosi, potremmo anche affermare che l’Italia è sempre stata frammentata in “aree vaste” sin dalla caduta dell’Impero Romano.

L’attuale sistema di federalismo ibrido all’italiana rispecchia l’esasperato “ecumenismo del volemose bene”: dare a ciascuno un pezzo di paradiso pur di mantenere un determinato status sociale. Ciò premesso, oggi più che mai sarebbe necessario ribaltare l’attuale impostazione delle autonomie territoriali italiane alla luce di due criteri fondamentali: alle Regioni va dato il compito di programmare il territorio e pianificare i servizi; alle Province va lasciato il compito di erogare i servizi secondo i fabbisogni dell’area vasta.

La principale partita del futuro si giocherà proprio sulla pianificazione dei servizi: in tal senso se la progettazione deve avvenire a livello macro, per garantire mezzi ed infrastrutture, al contrario l’erogazione deve avvenire a livello micro, per garantire il rapporto costo/efficacia. La Regione intesa come ente dotato di autonomia politica non ha senso e non è funzionale, in alcun modo, al benessere dei cittadini. Basterebbe che il decisore (unico) politico, lo Stato, fissasse delle linee guida su cui calibrare la programmazione degli interventi amministrativi ( a livello regionale), adeguatamente calibrati sulle esigenze e le peculiarità del territorio.

In questo modo, si riuscirebbe anche a tranciare di netto quel sottobosco di agenzie, enti, istituzioni e consorzi che, a livello regionale e provinciale, costituiscono il cuore dello spreco di denaro pubblico: dal personale impiegato, all’essere stazione appaltante, passando per gettoni di presenza e consulenze esterne.

In questo sogno, vorrei un nuovo articolo 117 della costituzione in grado di dire che lo Stato assume le decisioni politiche e fissa le linee guida amministrative, la Regione traduce le politiche in programmi e la Provincia trasforma i programmi in progetti.

Un approccio che è già in essere, ma solo a livello amministrativo e non politico.