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I recenti fatti di cronaca politica in merito ai dissidi interni dei due principali partiti del panorama politico italiano – il Popolo della Libertà e il Partito Democratico – offre un interessante spunto di riflessione in merito allo status giuridico dei partiti.

La questione, come noto, viene da lontano: precisamente, da un pezzetto che pare inattuato della carta costituzionale: gli articoli 46 (“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”) e 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).

Si sarebbe potuto – e forse dovuto – osare di più: ma non si fece. E oggi questa incompiutezza pesa, e anche molto. Durante la prima Repubblica, almeno in linea di massima, la vita del Partito aveva delle sue scadenze, delle sue liturgie e delle sue forme di partecipazione: che potevano al limite portare a delle disfunzioni del sistema stesso, ma che al contempo ne garantivano una sorta di democraticità interna, almeno entro i canoni richiesti.

Nella seconda Repubblica si è invece avuta una radicale trasformazione del modello Partito, il suo alleggerimento fino al suo scioglimento in una sorta di comitato elettorale permanente: un processo maggiormente marcato nel centrodestra ma comunque non assente nel centrosinistra; per non parlare dei movimenti antisistema che – già al finire della prima Repubblica ma oggi ancora di più – incentrano il proprio discorso politico nella persona e nella volontà del leader, di cui si configurano, in tal senso, quasi un contorno finalizzato esclusivamente al raccoglimento di consenso per conto terzi. Pur con i dovuti distinguo il processo è analogo e porta ai medesimi risultati: l’indebolimento delle differenze programmatiche e il crescente – se non esclusivo – rilievo al carisma lideristico del candidato alla guida del Partito trasformano ogni dialettica interna in uno strazio mediatico che crea fratture al limite dell’incomponibile, specialmente nelle realtà più locali e periferiche, dove il posizionamento è sempre più strumentale e sempre meno valoriale. Un trasformismo di ritorno – presente, al di là di quanto vogliono far intendere spesso le cronache, in entrambi gli schieramenti, come palesa in modo assolutamente paradigmatico la XVII Legislatura –, combinato alla legge elettorale vigente per l’elezione del Parlamento, rende questo panorama ancora più fluido e confuso, creando fenomeni che vanno ben al di là del divieto di mandato imperativo sino a una vera e propria travisazione della volontà popolare.

Il marcarsi di questo fenomeno diventa tanto più ingestibile a causa dell’assenza di regole certe: e qui ci ricolleghiamo – dopo questo rapidissimo excursus storico – al contenuto iniziale: lo status giuridico dei Partiti. La domanda, più profonda, ruota in realtà attorno al fine stesso del Partito. Cosa rappresenta? Quali finalità si dà? Quali strumenti possiede per raggiungerli? Una domanda che si ricollega – inevitalmente – al sistema di finanziamento pubblico dei partiti attualmente vigente che non gode certo di consenso tra l’opinione pubblica.

Il problema – ridotto al nocciolo della questione – consiste nella totale assenza di regole condivise di democrazia e partecipazione popolare nei Partiti. Gli strumenti congressuali sono abbandonati o marginalizzati e anche quando sono “vissuti” le tristi vicende legate a tesseramenti fasulli o fantasma – che hanno interessato pressoché tutti i partiti – dimostrano per l’ennesima volta come si tratti di una disfunzione sistemica, connessa alle modalità operative stesse con cui i congressi vengono svolti: è sensato che un Partito possa stabilire al proprio interno le regole di svolgimento delle consultazioni per scegliere chi, in linea di massima, può poi dettarne la linea? Anche in questo caso, la personalizzazione della politica e l’attuale assenza di una legge elettorale che permetta ai cittadini di scegliere direttamente i propri rappresentanti – senza con questo voler entrare nell’estenuante dibattito sulle argomentazioni pro e contro a favore dell’elezione mediante voto di preferenza, collegi uninominali, o sistemi misti di qualsiasi natura –, accompagnate da un progressivo e conseguente scollamento del civis dalla vita della polis, hanno potenziato reciprocamente, nel recente passato, i propri effetti deteriori.

Il dato, per certi versi paradossale, è che nell’epoca in cui si dava maggiore rilievo all’appartenenza ideologica e alla burocrazia interna, il Partito aveva un peso specifico maggiore ma era al contempo in grado di fornire delle certezze che oggi, per lo più, sfuggono. La soluzione, a questo punto, potrebbe passare per due vie antitetiche: eliminare lo strumento partito o regolamentarlo. Dare uno status giuridico ben definito ai Partiti, stabilendone in linea di massima i rapporti interni, fornirebbe regole condivise di democrazia e partecipazione popolare e depotenzierebbe le argomentazioni contro le forme di rimborso elettorale di cui gli stessi usufruiscono.

In estrema sintesi: rilanciare il Partito per rilanciare la partecipazione e, con la partecipazione, la Città.