Il Sindaco di Roma, Ignazio Marino, minaccia le dimissioni dopo circa 4 mesi dalla sua elezione: o il governo interviene per risanare il debito di Roma oppure si va al commissariamento dell’ente. Prescindendo dalla polemica politica su “chi abbia fatto quali debiti”, perché le colpe sono – davvero! – bipartisan, mi preme far notare due cose.

1) Lo strano rapporto degli enti locali con il deficit

Molto spesso, gli amministratori perdono di vista uno dei più basilari principi gestionali “da quando l’uomo ha inventato il cavallo”: se le risorse di cui dispongo sono pari a 100, non posso spendere 120. L’allegria delle spese, coperta da un’aura salvifica di “diritto sociale” in grado di giustificare ogni azione, è il sedimentato storico degli “orrori” della teoria degli “oneri impropri”. Ideata da una vecchie volpe democristiana – come Giuseppe Petrilli, presidente dell’IRI per quasi vent’anni -, si pensava che le imprese “pubbliche” potevano essere utilizzate per finalità sociali e lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti. Questo significava che l’IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato “oneri impropri”, cioè anche in investimenti antieconomici, portatori di debito pubblico. Per amore della verità, prima di questo scempio, la gestione dell’IRI ha portato fior fiori di miliardi di utili nelle casse del Ministero dell’Economia, dimostrando come uno Stato-Imprenditore possa essere funzionale ed utile.

Secondo la proprietà commutativa, invertendo l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Ora, con le municipalizzate, si continuano ad aprire le voragini nei bilanci ma il Comune non riesce a “coprire” tutto autonomamente. Da qui, due alternative: o si tagliano i servizi o si chiude. Per evitare questo, si piange misera nei confronti del Governo e della Cassa Depositi e Prestiti, braccio armato della finanza pubblica, che intervengono solo per prolungare l’agonia di chi chiede il prestito.

2) Il ricorso a piccoli dominus fuori dal circuito democratico

Commissariare sembra essere, quasi sempre, la soluzione di tutti i mali. In realtà, i poteri affidati al commissario rappresentano il totale fallimento della politica, della serie: “siete incapaci di autogestirvi, ci pensa il Governo”. Questo comportamento appare totalmente contrario ai principi che hanno portato alla “devolution” ed al “federalismo” all’italiana. A questo, varrebbe anche la pena aggiungere due parole su come, generalmente, chi porta l’ente allo sfracello venga, successivamente, “premiato” con il mandato commissariale: se prima il vertice doveva rispondere agli organi eletti, ora diventa un organo monocratico-funzionario del governo – ad agire autonomamente. In Europa, invece, chi porta qualcosa al fallimento viene punito con la galera, vedi il Caso-Islanda per capire.

Per concludere, credo che sia necessario invertire un paradigma di base della mentalità politica ed amministrativa italiana. I soldi pubblici devono essere gestiti con lo spirito del “buon padre di famiglia” e gestire le municipalizzate con criteri imprenditoriali: spendere bene, risparmiare e non spendere soldi che non si hanno. Rimodulando i servizi, tagliando/spostando rami secchi come buona parte di personale assunto come se la PA fosse un ammortizzatore sociale ed eliminando i doppioni, si potrebbe portare un Comune, come quello di Roma, verso una gestione sana. Mi chiedo: se ho un ufficio preposto ad un compito, perché devo affidare una consulenza con la stessa funzione? Delle due, l’una: o l’ufficio è composto da incompetenti (ed andrebbe chiuso) o la consulenza non serve. Facile, no?