La partecipazione alla vita politica e amministrativa della “polis” – la si intenda in senso stretto come Città o in senso analogico quale Stato – è questione non certo nuova e su cui si sono spesi illustri pensatori nel corso degli oltre due millenni in cui è fiorita la cultura in Occidente.

Impossibile ripercorrerla brevemente, sebbene, per la trattazione in essere, sarebbe opportuno ricordare quanto meno qualche accenno al dibattito che verte sulla partecipazione diretta oppure sul principio della rappresentanza dei cittadini in senso ad assemblee elettive mediante persone da loro deputate a tale scopo.

Si tratta di una questione complessa, uno slittamento dal primo al secondo modello che – qualora dovessimo operare un’azione riassuntiva sicuramente esasperata e riduttiva – potremmo imputare all’incremento demografico quale causa principale del fenomeno, tenendo ben presente, fra l’altro, che la “democrazia” della “polis greca” prevedeva la partecipazione attiva alla vita politica da parte di cittadini con requisiti molto più stringenti dell’odierno suffragio universale.

Modelli diversi, ovviamente, sono coesistiti – concretamente o idealmente – per molti secoli: se volessimo anche in questo caso operare una riduzione esasperata, potremmo indicare come direttamente proporzionali l’espansione territoriale e la riduzione della base partecipativa.

Si tratta, d’altra parte, di una esigenza concreta dettata dalla lentezza dei trasferimenti di informazioni e persone tra un’area e l’altra di territori più ampi e quindi anche demograficamente maggiori nel loro complesso: in assenza di possibilità tecnologiche differenti, la soluzione proposta alla problematica fu, non a caso, il restringimento della base di partecipazione diretta a un numero limitato di persone – eventualmente elette o delegate a tale funzione mediante un sistema più o meno democratico – che vengono poste in condizione di assumere decisioni trovandosi nel medesimo luogo.

Lo sviluppo tecnologico ha tuttavia ridotto l’incidenza di tale problema sino ad arrivare, idealmente, ad annullare le distanze spaziali – e, conseguentemente, in precedenza anche temporali – tra i membri di una comunità mediante la digitalizzazione dell’informazione e la trasmissione pressoché istantanea di quantitativi enormi di dati tra aree del medesimo livello tecnologico anche molto distanti.

Da qui nasce il “mito” di internet e il rinnovarsi di una ipotetica “partecipazione diretta” alla vita politica: l’informazione si moltiplica, cessa di avere filtri, internet consente un’interconnessione globale tra gli attori della società. In realtà, la situazione è ben più infida di come appare a questa prima superficiale analisi: la mole di dati che transita dal nostro computer è costantemente monitorata e le nostre ricerche servono a personalizzare le pubblicità che compaiono sul nostro schermo, tentando di condizionare i nostri consumi o persino a creare nuovi bisogni sino a ieri sconosciuti; l’assenza di filtri alla comunicazione riduce la qualità della stessa e la rapidità delle notizie che si susseguono incessantemente arriva a minare la verifica delle fonti, mentre alcune di esse sembrano divenire una nuova “auctoritas”, senza peraltro neppure avere lo spessore riflessivo e d’indagine di quelle che la hanno preceduta.

Si tratta, d’altra parte, di una situazione anomala, nella quale la tecnica non viene percepita come “strumento” – non è un “mezzo” eticamente neutro, in grado sia di “fare del bene” che di “fare del male” – ma viene caricata di una prospettiva quasi escatologica e liberatoria. Lo stesso destino che è riservato, nel caso in oggetto, a internet: caricato di un valore quasi salvifico, internet e la sua componente social divengono, ad esempio, per l’argomento di cui stiamo trattando, strumento per rinnovare una classe dirigente politica reputata inadeguata. Entrare nel merito dell’argomento sarebbe tanto lungo quanto infruttuoso: chi scrive non si arroga certo la capacità di far cambiare opinione a un lettore che ripetesse fideisticamente la tesi opposta.

Tuttavia è innegabile che l’internet di cui parliamo oggi – ovvero non più un modello informativo tutto sommato abbastanza statico, ma una rete sempre più fatta di interazioni sociali tra soggetti differenti – abbia stravolto completamente e in modo radicale il modo di concepire la politica e la partecipazione politica stessa: il rapporto eletto-elettore si fa diretto, la possibilità dell’eletto di acquisire informazioni – vere o false che siano, questo è un altro discorso – si moltiplica a dismisura, il riscontro delle scelte operate dall’eletto è immediato sino al punto di rendere possibile un’analisi mediante modelli matematico-statistici. Quest’ultimo elemento, ovviamente, apre alle stesse problematiche di cui si accennava sopra in merito ai sistemi pubblicitari via web: se non si dà solo un valore descrittivo a quei modelli ma anche uno predittivo allora l’analisi delle differenti possibilità e la scelta di quella considerata più vantaggiosa dall’attore politico – dove il vantaggio può essere per esempio declinato nel mero consenso da parte dell’elettorato – apre a prospettive non meno inquietanti di quelle della eterodirezione dei consumi.

La via che, temo, mi sembra si stia prendendo è appunto questa: la democrazia rappresentativa finisce con l’oscillare tra gli aneliti di irresponsabilità – figli della delega stessa che l’elettore fornisce a qualcun altro deputato a occuparsi della cosa pubblica al posto suo – e una schizofrenia partecipativa che vorrebbe vedere in un mondo senza digital divide il luogo ideale in cui ogni cittadino ha il tempo, la voglia e le competenze per esprimersi direttamente su tutto ciò che riguarda la sua vita, dalla buca nella strada di fronte a casa ai tecnicismi di una legge elettorale: una prospettiva, quest’ultima, fondata sulla convinzione – probabilmente falsa – che per “fare politica” non serva alcuna coerenza né competenza specifica.

In merito a quest’ultimo elemento, in particolare, si rende necessaria una riflessione ulteriore: chiunque si sia trovato di fronte ai meccanismi di una pubblica amministrazione ha appurato come la complessità e il tecnicismo degli atti che ci si trova di fronte esulano spesso dalle competenze che i singoli eletti – quindi un panorama già molto ristretto rispetto alla globalità dei titolari di elettorato attivo – possiedono per formazione o professionalità. Lo stesso valore della trasparenza delle pubbliche Istituzioni – pure più che condivisibile – si scontra con la stessa formulazione di atti che si trasformano in una moltitudine di rimandi impliciti ed espliciti che rende lunga complessa qualsiasi operazione di comprensione: in tal senso la trasparenza verso cui sta andando l’Italia si configura, in ultima analisi, come meramente formale, nulla più che un riduttivo “mettere a disposizione” che non ha altro senso se non rispondere a una precisa ma immotivata richiesta in modo tutto sommato inutile e inefficace. Il cambio di prospettiva dovrebbe essere ben più radicale, per permettere un autentico cambiamento: nell’esempio sulla trasparenza appena accennato, questa non deve essere concepita come mera “disponibilità” degli atti ma come “comprensibilità” degli stessi, esplicitando la richiesta di un cambiamento in chiave di semplificazione a monte degli stessi.

In tal senso anche la tanto decantata “partecipazione diretta” acquisirebbe tutt’altro senso qualora smettesse di configurarsi come una giacobina smania di controllo per trasformarsi in azione concreta di indirizzo politico: non che non vi siano ostacoli alla concreta realizzazione di questa ipotesi – l’esempio più evidente risiede proprio nel fatto che, per avere dei costi economici accettabili, tale partecipazione dovrebbe essere completamente digitalizzata, un’ipotesi che si scontra con una realtà sociale in cui intere fasce di popolazione sono informaticamente analfabete, al di là delle demagogiche enunciazioni di fantomatici “diritti” alla connettività per ogni uomo –  ma nessuno di essi pare insuperabile. Più che altro, è auspicabile che vengano oltrepassati, perché già in un’occasione passata la Storia ha mostrato che gli aneliti di “democrazie rappresentative” hanno avuto come naturale esito, nel giacobinismo, la ghigliottina.