Shop-market Italia
Paese che vai, capitali che trovi. E in tempo di globalizzazione non vi sarebbe niente di stupefacente nel voler sondare un po’ meglio il senso e gli scopi che animano le campagne acquisti dei grandi capitali che raggiungono il Bel Paese.
La prima sensazione è che nel “drop or buy” che giunge come suggerimento all’investitore straniero ci sia qualcosa che ricorda di più le logiche che guidano lo shopping che non l’investimento produttivo per lo meno come si intende secondo dottrina.
Ogni compravendita nasconde il proprio segreto e non siamo certo noi ad avere gli strumenti per poter svelare ragioni e clausole non scritte di accordi miliardari. Ma di quest’Italia “in vendita” ci va di fare alcuni distinguo, perché l’acquisto di Valentino Fashion Group conclusosi la scorsa estate da parte dell’Emiro del Qatar non è certo paragonabile ai poggi del senese, alle ville sul lago di Como, ai palazzi di Firenze e Roma o ai ritagli di Costa Smeralda che ogni anno si concludono a seguito di vorticosi grand tour ready-to-buy da parte di miliardi stranieri o dei loro personal buyer.
Quel luglio 2012 la decisione di Hamad bin Kahlifa al Thani, Emiro del Qatar, di acquisire la maison di moda Valentino ha fatto il giro dell’Europa e dato uno scopo alle consulenze dorate del sistema economico-finanziario italiano, sensibilmente contratte dagli ormai cinque anni di crisi economica mondiale che hanno frenato investimenti, fusioni e acquisizioni.
I russi, che in passato hanno già fatto campagna acquisti entrando nel mercato dell’acciaio europeo con l’acquisto delle acciaierie Lucchini, tornano sotto i riflettori annunciando nuovi investimenti (diretti esteri) che si riveleranno profittevoli per entrambi i paesi. Esempi in questo senso non mancano: il desiderio di Ratan Tata di acquisire la Ferrari nel 2008 si è consolidato per ora in una fruttuosa collaborazione tra il marchio della Fiat e la Tata Consultancy Service in materia di sviluppo elettronico e ingegneristico.
In Italia il turismo in crescita è quello asiatico (includendo la Russia) e dai “brics”, laddove c’è liquidità. E sono proprio i capitali di quegli stessi paesi ad organizzarsi per primi, proponendosi per la gestione dell’offerta turistica, dai planning ai grandi resort.
Se da un lato il mercato ci porta a dire che i soldi si va a cercarli laddove ce ne sono, parafrasando così una celebre frase cinematografica “è il mercato globale, bellezza, e tu non puoi farci niente”, dall’altro questi fenomeni rivelano a nostro parere due tendenze che espongono l’Italia a rischi enormi.
Da anni è in corso nel nostro paese un dibattito sulle vie da seguire per rilanciare uno sviluppo che appariva fragile ben prima dello scoppio della crisi mondiale del 2007.
Non sono bastati 18 anni di seconda repubblica per completare una transizione da un sistema industriale ingessato e quasi pianificato ad un mercato di libera concorrenza, perché quello che si presenta agli occhi dell’osservatore è stata l’impossibilità di concordare obiettivi comuni per lo sviluppo di un paese che ha fatto del governo del consenso – pur nella giustificabilità storica – l’unica vera linea guida applicata.
Riflettendoci un attimo ci si accorge di quanto sia fortemente radicata l’abitudine di connotare i diversi stati sulla base delle rispettive specializzazioni economiche, spesso e volentieri abbondantemente superate e ormai desuete, ma ancora fortemente resistenti perché percepite come parte integrante dell’identità di una nazione.
E qui sta il punto. L’Italia vista da fuori è un souvenir, Italian Postcard come dicevano gli americani rimasti dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’Italia è Bellagio, Sorrento, Chianti, Cortina, così come Ferrari, Valentino, Armani, Barilla o ancora Pizza, Espresso, Tiramisù, Lasagne.
Così oggi, nell’assenza di una traiettoria comune sullo sviluppo del paese, dissipiamo le poche risorse interne al sistema e rincorriamo le occasioni estemporanee provando a vendere agli stranieri i marchi minori per “la grande moda” e l’artigianato locale per “la grande manifattura italiana”.
Un marchio forte ha il potere di guidare la domanda di un prodotto, la sensazione – purtroppo – è che invece siano i gusti del turista straniero/investitore, la sua idea stereotipata di “cartolina italiana” a guidare l’offerta italiana. Anzi, in misura crescente investitori stranieri investono in Italia allo scopo di adattare la “cartolina” al gusto e alle aspettative del turista straniero, frequentemente connazionale.
Se i “gioielli” di casa nostra riteniamo rappresentino davvero il tesoro sul quale poggiano i nostri piedi, forse sarebbe utile riannodare i fili di quel discorso mai completato sugli obiettivi di sviluppo dell’Italia e su questi costruire una strategia almeno per sommi capi. L’alternativa è appunto lo shopping nel bel paese, di per sé un fenomeno naturale in un mercato globale, ma anche un fenomeno controproducente e limitante per un paese che dovrebbe fare un censimento attendibile del proprio patrimonio ed elaborare una strategia su di esso, che potrebbe certamente ricomprendere anche lo shopping straniero, ma allora sì in una chiave diversa e profittevole (nel medio-lungo periodo) per entrambi.
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