Nel 1982 Ridley Scott immaginava la Losangeles del 2019 cupa, tetra e perennemente avvolta in una fitta cortina di smog e nebbia. Una pioggia incessante rende lucide strade e superfici donando un aspetto ancora più spettrale alla città futuribile.

A pensarci bene è un classico dei film di fantascienza, in cui possiamo a buon diritto iscrivere il celebre Metropolis come precursore per arrivare fino alla più recente saga di Matrix.

Ma c’è dell’altro che accomuna questi paesaggi desolanti: sulla terra (generalmente) sono rimasti i poveri derelitti, la vita animale e vegetale è ormai assente, e chi può permetterselo è andato a ricercare una qualità di vita scomparsa in “colonie extra-mondo”. Sulla terra grattecieli altissimi e imponenti legittimano un potere dispotico esercitato dai più ricchi, mentre la massa di persone è ridotta a vivere in edifici alienanti, più simili ad aziende che ad abitazioni, dove sistemi di controllo sociale robotizzati sorvegliano incessantemente la vita quotidiana. In queste città del futuro la vita si costringe negli spazi chiusi, resi minimamente accoglienti da una luce più calda.

Quella sensazione di pace interiore che ci è trasmessa dal senso del “pittoresco” così come già venne compreso e codificato nella pittura romantica, si perde completamente di fronte alla sparizione di ogni forma di armonia, di bello nel senso più classico e classicistico del termine.

Di completamente inventato c’è ben poco, la sostanza di quanto descritto è rinvenibile in numerose realtà urbane sparse per il mondo.
Il contrasto tra il buio della città e la luce che anima la vita notturna dei bar è stato immortalato dal pittore americano Edward Hopper già nel 1942, mentre lo skyline della Los Angeles di Blade Runner si ispira alle notti estive di Hong Kong (30anni fa, oggi potrebbe benissimo essere Shangai o Shenzhen), cità che svettano verso il cielo emergendo dalle nebbie generate dall’afa e dall’inquinamento che le avvolge. L’abbandono e l’atmosfera post industriale negli anni ’80 caratterizzavano pesantemente le città manifatturiere e minerarie inglesi abbandonate pochi anni prima e divenute soggetto delle fantasie cyberpunk dell’epoca, prima della timida rinascita nella nuova dimensione di città “di servizi”.

Si fatica a scorgere all’orizzonte un’idea di città nuova, una visione che sia abbastanza complessiva da rendere davvero l’idea di come si potrà vivere un domani.
In buona misura le uniche visioni complessive del futuro dell’urbanesimo provengono comunque dalla fantascienza, mentre la politica, la sociologia, la filosofia e su tutti l’architettura sembrano aver abdicato a questo compito di immaginazione che invece ha animato l’umanità in epoche passate, basti pensare al Rinascimento e allo sviluppo del concetto di città ideale.

Non si può che concordare con le poche voci sparse che reclamano la necessità di ristudiare le città dalle fondamenta, mentre oggi chi progetta (in senso lato dal progettista al committente all’ente che autorizza) si limita a realizzare edifici, spazi, strutture contribuendo poco o per nulla alla costruzione di una visione nuova di città.

Chi viaggia, per lavoro o per diletto, non può non percepire la crescente omologazione che caratterizza le città metropolitane, dagli Usa alla Cina, passando per gli Emirati Arabi per arrivare fino all’Indonesia.
Più lentamente, ma altrettanto percepibile, questo fenomeno sta coinvolgendo ormai le aree rurali, dove le esigenze produttive di una meccanizzazine standardizzata impongono caratteristiche unitarie al paesaggio agrario.

Quello che non sta emergendo è un sistema urbano nuovo, innovativo. Mettiamo pezze ad un sistema che c’è già e che ormai appare inadeguato e difficilmente perfettibile.
Insistendo su questa strada assisteremo alla perdita d’identità degli spazi urbani, anche come capacità concettuale da parte dei decisori politici e dei progettisti di scovarla nella conformazione di luoghi e nei rapporti tra le persone per farla emergere nello spazio vissuto.

Il problema di domani non può essere la larghezza della pista ciclabile per la sicurezza del pedone e del ciclista né tantomeno la sua lunghezza o gli attraversamenti pedonali rialzati. Alla base del cambiamento deve esserci un ripensamento profondo delle logiche che hanno guidato la mobilità delle persone, seguendo alcuni imperativi: riduzione del traffico attraverso un aumento del telelavoro e un cambiamento radicale nei mezzi di locomozione, una vera integrazione tra aree verdi e tessuto edilizio, affinché il “verde” non resti un’ isola separata, intesa come inutile compensazione volumetrica di uno spazio costruito, per finire con una ricostruzione dell’identità dei luoghi, unica vera scintilla capace di garantire un equilibrio apparentemente naturale tra uomo e spazio vissuto.

Qualche fermento in questa direzione c’è, ma quello che sembra mancare è la forza o la volontà di mettere a sistema collegando tra loro questi sporadici tentativi di ripensamento per farne una nuova regola urbana. Questo compito spetta ai decisori, quindi ai politici in primo luogo, ma insieme a loro deve esserci una comunità intera, fatta di professioni, di competenze specifiche o anche solo di interesse e attenzione per quello che ci può riservare il domani.